Più che in ogni altra raccolta di brani strumentali (studi, preludi, rondó, polonaises), i Nocturnes di Chopin si avventurano lungo quella misteriosa e utopica traiettoria della musica che si è soliti chiamare “melodia”. Essa è l’ordine orizzontale del ductus, il ponte o il piano prospettico gettato sull’ossatura verticale dell’armonia, la direzione che indica il cammino e aderisce ai volumi, si incurva al di sopra dei vuoti, scava il concavo e flette lungo il convesso della vita sensibile che si racconta in musica. Melodia è linea e non punto, superficie e non contrazione, volto e non parola, è l’intuizione di un senso ancora sorpreso nell’attimo del suo inarcarsi su quel che abbiamo vissuto, prima di sparire in ciò che saremo chiamati a ricordare.
Dall’opus 9 all’opus 62, i Nocturnes ci mostrano cosa accade alla melodia quando è portata all’ultimo limite del suo dispiegarsi, cosa ne fa Chopin quando mostra la potenza allegorica di un’interiorità che (nella melodia, come melodia) dischiude il proprio segreto nucleo, trasfigurando di stato perfino la materia di cui è fatto.
L’impressione che danno i temi chopiniani, così definiti e perfetti al primo apparire, è che abbiano il dilagare come destino: svilupparsi lungo infinite linee di articolazioni possibili, senza mai esaurire il proprio potenziale drammatico, anzi rinnovandolo altrove e in altro modo. Colui o colei, che così intimamente si confessa, da voce diventa volto e il volto a sua volta si fa superficie del pianto, umidore nel quale l’io cantore trapassa liquefatto in lucor, non più coscienza, mens o parola. Piangere forse, e non vedere, è la funzione primaria dell’occhio.
Assistiamo di volta in volta allo stringersi di un nuovo nodo, un nuovo punto di attacco che rinsalda e vincola il concreto all’astratto: da un lato, il corpo, che dalla voce al volto, si scioglie infine in lacrima e liquore, e dall’altro la psyché, che da ispirazione, spirito o respiro, si fa dischiusura dell’interiorità, si apre come ferita vociferante, faglia dove s’insinua l’individuo che si racconta.
La melodia chopiniana dispiega queste metamorfosi lungo tutti i Nocturnes, attraverso i quali possiamo seguire, da vicino persino osservare, l’evolversi di questo farsi acqueo, illimitato, intangibile. Gli ultimi due brani Op. 62 sono forse l’esito estremo di una simile dissipazione; vi si arriva a postulare una diluita e trasognata melodia infinita, arco interminabile la cui curva è linea retta e illimitata. È un regno incorporale, evanescente, dove l’impeto e la sorgività dell’ispirazione coincidono senza residui con l’artificio della sapienza creativa. Nessuna distinzione tra tema e sviluppo, tra dire e silenzio, tra spirito e carne.
Eppure è proprio alla carne, questo il punto di cui vorrei parlare, che resta legato il nome di Chopin: un lembo rappreso dell’uomo, che la cronaca conserva al di qua della soglia di liquefazione cui solo l’opera sarà soggetta. Ed è qui che la sublimazione istantanea dei due, spirito e carne, subisce un colpo d’arresto, o se si vuole una stimolante contraddizione in termini, proprio da colui che ne era il confessante originario.
Entrando nel merito biografico, sta di fatto che, sul letto di morte, Chopin strinse un ultimo patto con la sorella Ludwika: che, a morte avvenuta, il proprio cuore venisse espiantato dal corpo e traslato a Varsavia. Questo simulacro di sepoltura in terra natìa è ciò che venne effettivamente messo in atto. E fu così che un barattolo ricolmo di armagnac, legato da Ludwika ai cerchi della crinolina che gonfiava la campana della sua gonna di broccato, passò la frontiera polacca, imbevendo degli aromi distillati della folleblanche l’incassatura tricuspide del fratello spirato. La quintessenza delle uve macerate nello spirito s’infiltra così nelle membrane del pericardio, ne imbeve i dotti, rigonfia le cavità; la bevanda si converte in secrezione, sotto il regno deformante della molatura del cristallo.
È macabro, forse grottesco, questo finale di partita, e sarebbe più facile ritenerlo verosimile se riferito a quelle ossianiche personalità romantiche affini a un certo gusto byroniano, fatto di reliquie, rimedi oppiacei, memento mori e marezzati velours all’ottomana (che so, Berlioz o Liszt). Frideryck Chopin, in tutta onestà, a quel gusto mi è sempre parso totalmente estraneo. Non aveva bisogno di trarre spunto dalle più cupe suggestioni preromantiche per consacrarsi, la sua arte avrebbe fatto epoca a sé. Ma questo è il dato storico: il muscolo cardiaco, sapientemente resezionato da mani pure, lavato e asciugato di ogni traccia di plasma, svuotato della rubedo vitale e declassato a un’indefinibile, pergamenacea sfumatura mauve – quel cuore, dunque, giunse alla tumulazione in patria come reliquia trafugata.
Se pensiamo alla vertiginosa incorporeità del suo canto, alla tessitura impalpabile del suo melodiare, all’esercizio di una legge di pura intenzione evocativa, e confrontiamo tutto questo col cuore circonciso e smembrato dalla veste cadaverica, vediamo come tutto possa nuovamente cambiar di segno.
L’opera del genio, che la retorica dell’arte innalza a cifra dell’eterno, universale intangibile della materia di cui sono intessuti i giorni, traccia della purezza spirituale infusa nella superiorità dell’intelletto, da ora si specchia nell’ossessione della persistenza del marcescibile, nella tetra pratica della conservazione delle carni, nell’abluzione rituale della parte che ha battesimato e contaminato il tutto. Se poco sopra si risaliva lungo il nodo che intreccia il volto alla lacrima, sorvolando la dischiusura che apre il tocco in carezza, l’esecuzione materiale dell’espianto sembra contraddire la logica della metamorfosi, ponendoci invece al cospetto dell’esatto punto di innesto dello spirito sul corpo. Quella è l’orma, è l’istante, è l’organo preposto alla torsione della vita in musica, è lì, lungo quel nexus, che il sensibile si è tradotto in rammemorazione, il lacerto benedetto della commistione fra le nature nostre e le divine, nucleo della gloria impressa lungo l’intarsio delle suture.
Gli si dà sepoltura separata, come fosse altra persona.
Il cuore di Chopin, simbolo anatomico della sua forza creativa, escisso dalle membra esangui, pietrificato in impronta reliquiale del suo passaggio tra gli uomini, potrebbe suggerire sottilmente una verità semplice e indivisibile. Il cuore è alveo, urna, letto sepolcrale di tutto il sensibile. Non la mens, né il lascito imperituro dell’opera scritta: il segno della perdita di uno spirito sottile risiede nella rotondità vascolare degli affetti e l’arte che ne ha rivelato il demone geniale irrora lo stesso solco di nostalgia, di desiderio, di privazione.
Conchiusa nel cuore, la musica è l’eros. Ma si badi, per una qualità che, platonicamente, contraddistingue entrambi: la povertà — la manchevolezza, l’incompiutezza, l’aspirazione cieca che, insoddisfatta, si alimenta della transitorietà come fosse il suo pasto di carne.
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